Paolino da Venezia, infatti nella “Cronologia Magna”, conservata nella Biblioteca Vaticana (codice Vaticano Latino 1960, del 1323-1334), ci riporta questo sito. Bartolomeo da Pisa, alla fine del Trecento lo conserva ancora con lo stesso nome, e vi aggiunse il “locum de Pignano”, ossia quello di Appignano del Tronto.
Tale sito, ad un chilometro e mezzo circa da Appignano e tra Offida e Castignano, “si trova oggi nel territorio di Castignano, tra i torrenti: Volubile e Fosso Magno; anticamente, essendo incuneata nei territori contigui: fermano, ascolano e aprutino, risultava baluardo difensivo e strategico in uno dei punti obbligati per l’attraversamento viario, per cui vi si registra una continuità insediativa documentata sin dall’età picena” (M.E. GRELLI-E. SANTONI-B. MONTEVECCHI-A.MULEO,
La Croce Santa e i frati di San Francesco di Appignano. Storia, tradizione, arte e restauro, Appignano del Tronto, 1999, 23).
Padre Giacinto Pagnani, alcuni anni or sono ne rinverdì la memoria citandolo nel suo celebre “I viaggi di San Francesco nelle Marche”, raccogliendone anche qualche episodio tramandato dalla devozione ed il ricordo popolare.
Siamo nel 1215, a seguito del famoso viaggio di San Francesco ad Ascoli Piceno. “Scendendo per uno sdrucciolevole sentiero, si arriva su un poggetto coronato da alcuni ruderi che appena affiorano dal suolo sormontato da una chiesetta intitolata a San Francesco. Nel fianco che guarda il paese [Appignano], si scorge un incavo come se il muro fosse rientrato in se stesso.
Eccone la strabiliante spiegazione che ce ne ha dato l’arguto contadino che ci faceva da guida.
Un giorno San Francesco conversava con una donna venuta da lui per consiglio, quando sopraggiunse una signora dall’aspetto distinto, che finse di stupirsi di vedere un Santo solo con una donna.
Ma San Francesco riconosciuto il signore per quello che veramente era, lo allontanò da sé gridando: “Vattene. Satana!”. Il messere, vedendosi scoperto, indietreggiò di un passo, urtò con la schiena il muro e scomparve nel fondo del burrone che si apre sopra ad Appignano” (G. PAGNANI, I viaggi di San Francesco nelle Marche, Milano, 1962, 99-100).
L’episodio è abbastanza comune tra quelli tramandati del Santo di Assisi: resta il fatto che quel sito e quei ruderi sono la testimonianza di un passaggio e di un insediamento antico, lungo una strada di cammino verso Offida e verso gli altri luoghi antichi della presenza francescana, dato che anche nei dintorni si trovano antichi luoghi dei frati. Poco distante da questo antico convento, si trova la chiesa di San Bernardino, edificata sull’antica Pieve di San Antimo di Raiano: un ambiente anticamente legato ai monaci di Farfa, passato alla fine del X secolo ai Canonici del Capitolo della Cattedrale di Ascoli Piceno. Così, almeno, oltre i ruderi dell’antico convento, rimane ancora oggi la memoria di un santo francescano a sigillare quella presenza antica e quel misterioso passaggio del santo fondatore e predicatore.
Appignano ha avuto, però, anche un altro sito francescano fin dai primi tempi della storia dell’Ordine. Infatti, le antiche carte toponomastiche e la testimonianza di Bartolomeo da Pisa nel Liber de conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Jesu parlano del locum de Pignano, a dire il vero non sostitutivo di quello di Castiglioni, ma all’inizio almeno, concomitante.
La Chiesa ed il Convento si trovavano, secondo la descrizione del Notaio Angelus Ciccharelli, nel 1527, “vicino alla porta da piedi, a ridosso delle mura di cinta, vicino all’ospedale” (M. E. GRELLI-E. SANTONI-B.MONTEVECCHI-A.MULEO, La Croce Santa e i frati di San Francesco di Appignano. Storia, tradizione, arte e restauro, Appignano del Tronto, 1999, 32).
Nella relazione della Visita triennale del P. Orazio Civalli, del 1596, risulta essere “un conventino piccolo molto antico ed in parte arrovinato per una lama vicino alle mura del castello” (ibidem). Il P. Ilario Altobelli, nel 1620, nella Genealogia Seraphica, lo descrive come antico: “De conventu Sancti Francisci de Appiniano prope tempora nascentis ordinis minorum” [Il Convento di San Francesco di Appignano sorto nei primi tempi del nascente Ordine dei Minori] e, a causa della sua rovina, “signum magne antiquitatis” [indizio di grande antichità] (ivi, 32-33).
La descrizione del sito fa supporre che i primi “fratres” entrati stabilmente nel castello di Appignano siano stati accolti nell’area dell’antica Chiesa di San Giorgio, forse di iuspatronato comunale. La deduzione è suffragata da una serie di dati significativi e di corrispondenze che enunciamo qui di seguito: i riferimenti catastali del 1381, che descrivono nel castello la proprietà della Chiesa di San Giorgio, presso il muro del comune, sono gli stessi che, nel secolo XV, sono usati per descrivere la posizione della Chiesa e del Convento di San Francesco e l’analogia con quanto avvenuto in altri siti delle Marche (ivi, 33).
Ciò fa pensare al legame antico dei frati con i luoghi dedicati al santo militare protettore dei poveri, dei malati e dei pellegrini. Così si consumava, però, anche ad Appignano del Tronto il processo di inurbamento dei frati: dai luoghi di campagna e vicini alla povera gente e alle relative pievi nelle strade di comunicazione si passava alla città o al castello, dove era più facile per essi dedicarsi alla cura animarum, all’assistenza dei poveri e bisognosi, accanto a coloro che diventeranno sempre più beneficati e benefattori, amici spirituali e sostenitori delle esigenze umane, materiali quotidiane di una comunità in crescita e sviluppo, con esigenze sempre più adeguate al cambiare dei tempi e ai bisogni del popolo. Una attestazione della ubicazione della chiesa e del convento dei Padri Conventuali, si trova in un Disegno di Appignano nello Stato d’Ascoli del sec. XVIII nell’Archivio di Stato di Roma (Ivi, 30 particolare e 32).
Al Convento di Appignano Nicolò IV donò una reliquia della Croce Santa, tanto preziosa e venerata dal popolo appignanese, che ha accompagnato la storia religiosa di Appignano lungo i secoli, con la celebrazione solenne della festa, il 3 maggio, e con la istituzione di una Confraternita e di un altare e di un reliquiario prezioso nella Chiesa di San Francesco: di tale donazione parlano sia il Padre Orazio Civalli nella citata Visita triennale del 1596 sia il P. Ilario Altobelli nella Genealogia del 1620, sia il Wadding nei suoi Annales (cfr. (M.E. GRELLI-E. SANTONI-B. MONTEVECCHI-A. MULEO, La Croce Santa e i frati di San Francesco di Appignano. Storia, tradizione, arte e restauro, Appignano del Tronto, 1999, 41-42).
Il Convento e la Chiesa di san Francesco, però, si trovavano in un luogo insicuro a causa del fosso di S. Giovanni che passa proprio vicino alle mura in cui sono costruiti. Sicché, data l’impossibilità di riparare ai danni che questa continua minaccia d’acqua procura, il Papa francescano e marchigiano Sisto V, provvide ad assegnare ai frati francescani conventuali di Appignano, con una Bolla del 1586, la Chiesa parrocchiale di Sant’Angelo, che assunsero effettivamente solo nel 1620 e dove trasferirono la preziosa reliquia della Santa Croce e altri arredi sacri. Dopo pochi anni, nel 1652, a seguito della soppressione dei piccoli conventi decretata da Innocenzo X, i frati dovettero lasciare il loro antico Convento.
Vi fecero, però, ritorno 11 anni dopo, nel 1663. Negli anni venti del ‘700, a causa di una frana rovinosa che ha interessato lungo i secoli la parte del paese in cui si trovava il sito francescano, sia il campanile che la Chiesa e il Convento di San Francesco precipitarono lungo il fondovalle. I frati, si trasferirono dapprima in un’abitazione, officiando la Chiesa di Sant’Angelo, quindi, con le offerte del popolo e con la vendita di qualche bene riuscirono a costruire un nuovo Convento che alla data del 15 settembre 1743 risulta terminato (Ivi, 102), e prese il nome di Sant’Angelo, come la Chiesa che i frati avevano avuto in custodia.
Essi continuarono la loro preziosa ed antica testimonianza di vita e di servizio pastorale fino al 19 giugno 1808, con la tragica e infausta soppressione generale degli ordini religiosi decretata da Napoleone Bonaparte, anche se un frate rimase ad Appignano ad officiare la Chiesa di Sant’Angelo fino al 1815. Il nuovo Convento è oggi la sede del Municipio. La Chiesa, invece, è sede della Parrocchia.
Questa è la storia di una presenza, che ha lasciato le tracce della fede e dell’amore dei figli di San Francesco in una reliquia preziosa e ancora oggi tanto venerata, in una Chiesa e in un Convento, che seppur abitati da altri inquilini, testimoniano ancora una traccia che porta fino ai primi anni dell’avventura francescana nel Piceno. Ma la ricchezza francescana di Appignano non si ferma ai monumenti architettonici e alle preziose testimonianze di devozione.
Dobbiamo, infatti, fare riferimento e comprendere la terza nota caratteristica della presenza francescana in Appignano del Tronto, ossia quella del più illustre tra i suoi figli e maestri: Frater Franciscus Rubeus de Apponiano ovvero de Esculo, o de Marchia, che è stato uno dei grandi maestri di teologia a Parigi di certo negli anni 1319-1323 (per le notizie seguiamo per lo più D. PRIORI-M. STIPA, Francesco d’Appignano Doctor succinctus [Quaderni Appignanesi, Anno I, n.1 - Maggio 2005], Edizioni Centro Studi Francesco d’Appignano, Appignano del Tronto, 2005).
Il nome cambia a seconda che si voglia fare riferimento alla sua città di origine, al capoluogo della sua Custodia, alla Provincia religiosa di appartenenza. Quanto al cognome o al soprannome Rubeus o Rubei, ossia Rosso o Rossi, è probabile che faccia riferimento al colore dei suoi capelli o a qualche particolare caratteristica del suo casato. Il Padre Nazzareno Mariani, della Provincia Picena, ha dedicato questi ultimi 20 anni ormai alla riesumazione e pubblicazione delle opere di questo grande e significativo maestro francescano, definito “doctor succinctus”, del periodo iniziale del XIV secolo, per cui oggi possiamo conoscerne più approfonditamente il pensiero e la forza del ragionamento: Francesco è uscito finalmente dalla piccola cerchia di conoscenza degli specialisti ed è ridivenuto un protagonista del pensiero francescano medievale: sono uscite in questi anni varie opere, soprattutto il Commento alle Sentenze e la Improbatio o Contestazione a Giovanni XXII.
Dato che nel 1305-6 era studente del grande teologo francescano Giovanni Duns Scoto, maestro a Parigi, possiamo arguire che la data della sua nascita debba essere portata agli inizi degli anni 80 del ‘200. All’Università di Parigi e all’interno dell’Ordine, come pure nella Chiesa e nei vari regni del tempo si vivevano momenti particolari di tensione sia per le questioni che dividevano i maestri secolari da quelli regolari, sia soprattutto per la grande questione della povertà che da dentro l’Ordine francescano era uscita ad interessare anche la Chiesa nel suo complesso, sia per la lotta tra il potere spirituale del Papa, che diveniva sempre più temporale, e quello temporale dell’Imperatore e degli altri regnanti, che reciprocamente invadevano il campo l’uno dell’altro.
Il nostro frate filosofo e teologo non rimase estraneo a queste vicende, essendo per temperamento e per convinzione più un protagonista che uno spettatore.
Nel Capitolo generale di Perugia del 1322 i francescani avevano affermato che è da ritenere assolutamente certo e conforme al Vangelo che Cristo e gli Apostoli non avevano posseduto nulla, né in comune né in privato. Il possesso dei beni, dunque, non corrispondeva alla purezza evangelica, ma era qualcosa che contrastava con l’originalità cristiana della vita, soprattutto per chierici e religiosi. Questa affermazione e dichiarazione, che circolava da tempo all’Università ed era sostenuta soprattutto dai maestri francescani. Per il Papa Giovanni XXII e per il mondo ecclesiastico una simile affermazione contrastava con i principi del sistema giuridico che soggiaceva alla vita dei chierici, ossia il sistema del “beneficium” legato ad ogni “officium”, voluto di per sé per contrastare l’accaparramento di beni da parte di uomini di Chiesa. Tra i firmatari della dichiarazione del Capitolo generale figura anche il nostro frate Francesco d’Appignano. Il Papa Giovanni XXII fu decisamente contrariato dalla presa di posizione dei francescani, al punto tale che reagì energicamente sia affermando con un decretale del 12 novembre 1322 che condannava come eretica l’affermazione che Cristo e gli Apostoli non avevano posseduto nulla né in comune né in privato sia con un’altra decretale del 12 dicembre 1322 restituendo ai Francescani i loro beni, che erano stati attribuiti alla Santa Sede da Papa Innocenzo IV nel 1245. Il Papa voleva che il Generale dell’Ordine, Michele da Cesena, si sottomettesse alle decisioni papali, ma questi, insieme a Francesco da Appignano, Guglielmo da Ockam e Buonagrazia da Bergamo, non solo non accettò di rinunciare alle posizioni teologiche, ma portò di nuovo argomenti a favore della tesi contraria e definì per contrasto la posizione del Papa stesso come eretica.
La sorte del Generale, come del nostro Francesco e degli altri frati era segnata. Il Papa li scomunicò. Fuggiti a Pisa, si incontrarono con l’imperatore Ludovico il Bavaro. L’Ordine, nel Capitolo generale di Parigi del 1329 nominò un altro Generale, Guiral Ot, amico del Papa e condannò Michele da Cesena e i suoi compagni.
Francesco da Appignano ebbe l’ardire di recarsi a Parigi per cercare di convincere il Re e la Regina di Francia ad abbracciare le tesi della povertà e della limitazione del potere temporale del Papa. Il Papa rinnovò ancora la sua condanna delle tesi micheliste, come si diceva, con una Bolla del 16 novembre 1329. Francesco rispose con una “Improbatio”, o confutazione, meticolosa e agguerrita. Il 4 dicembre 1334 moriva Giovanni XXII e gli successe Benedetto XII che rinnovò la condanna nei confronti dei frati fedeli a Michele da Cesena. Francesco, che nel frattempo aveva trovato rifugio a Monaco di Baviera, vicino all’Imperatore, fu catturato dall’Inquisizione e sottoposto a processo a partire dal 6 febbraio 1341. Francesco si difese energicamente da ogni accusa.
Il 1 dicembre 1343 alla presenza di Clemente VI, nuovo Papa, dei cardinali della Curia e del Ministro generale, ad Avignone, Francesco lesse la sua ritrattazione e fece la sua professione di fede: non perché rinunciasse all’ideale e alla professione di fedeltà al Vangelo, che credeva profondamente, ma perché voleva vivere comunque nella comunione della Chiesa e dell’Ordine e nella fede che questa professava e trasmetteva. Dopo il 1344 di Francesco si perdono le tracce e non si sa quando e dove sia morto. Dato che il P. Ilario Altobelli attesta che Sisto V fece trasferire nella Biblioteca Vaticana i libri di Francesco rimasti nel Convento S. Francesco di Appignano è da pensare che sia stato sepolto nella stessa Chiesa e da qui trasferito in quella di Sant’Angelo, quando i frati dovettero traslocare a causa della frana che mandò in rovina Chiesa e Convento antico (D. PRIORI-M. STIPA, Francesco d’Appignano Doctor succinctus [Quaderni Appignanesi, Anno I, n. 1 - Maggio 2005], Edizioni Centro Studi Francesco d’Appignano, Appignano del Tronto, 2005, 32).
Francesco rimane l’esempio di un uomo che non viveva la teoria della povertà come qualcosa di distaccato e legato semplicemente al pensiero e al ragionamento, ma entrò nell’agone delle vicende del suo tempo e seppe, mantenere la bussola dell’orientamento decisivo della sua vita: la comunione nella Chiesa e la partecipazione appassionata alle vicende del suo Ordine. Appignano non era Parigi, ma l’elucubrazione del Maestro non aveva perduto la passione del frate vissuto e cresciuto dentro le vicende di un povero Convento di un piccolo paese, non per caso, ma per scelta di vita.