Partendo da Ancona, antica città dorica adagiata sul suo golfo, attorno al porto, da dove S. Francesco si imbarcò per la Terrasanta, si possono visitare i luoghi più belli, come il romanico Duomo di S. Ciriaco, bianco e fiero in cima al colle Guasco, così ancora come lo vide Francesco, i musei, e, per il nostro interesse, la chiesa di S. Francesco delle Scale (con la gotica facciata eseguita da Giorgio da Sebenico) e l’antico Convento di S. Francesco ad Alto (il “luogo vecchio d’Ancona”, di cui parlano “I Fioretti”), fondato sul colle Astagno dallo stesso Santo di Assisi nel 1219: oggi Presidio militare, rimane a memoria della presenza di tanti santi nella storia, tra cui il Beato Pietro da Treia, San Giacomo della Marca e il Beato Gabriele Ferretti; la sua chiesa era scrigno di varie opere d’arte (oggi sparse tra musei e pinacoteche del mondo) tra le quali un crocifisso duecentesco, ora perduto, verso il quale il Beato Pietro si elevò da terra, durante le sue intense preghiere.
Un altro frate della Marca d’Ancona fu frate Pietro da Monticello, ossia da Treia, il quale fu veduto da frate Servodio da Urbino (allora essendo guardiano nel luogo vecchio d’Ancona) levato da terra, dinanzi al quale stava in orazione. Ma Francesco era stato in Ancona già nel 1212, quando per la prima volta tentò di raggiungere l’Oriente, come narra ancora Tommaso da Celano.
Ancona è una città ricca di storia, di tradizione e di presenza francescana. Il Convento di San Francesco ad Alto fu un luogo molto importante nella storia dei Frati Minori, oltre che per la presenza antica di S. Francesco e dei Beati Corrado da Offida e Pietro da Treia, esso fu, nei secoli, luogo di residenza del Ministro Provinciale delle Marche e, in tal senso, sia di S. Giacomo della Marca sia del Beato Gabriele Ferretti. La Chiesa conteneva varie opere d’arte e di pietà, tra cui il sarcofago del Beato Gabriele Ferretti, trasportato nel museo della Cattedrale, la celebre tavola di Carlo Crivelli rappresentante la visione della Vergine Maria, che il Beato Gabriele Ferretti ebbe nel bosco del Convento di S. Francesco ad Alto.
Oltre il citato luogo di San Francesco ad Alto, i Francescani edificarono ed abitarono altri luoghi molto significativi ed importanti sia da un punto di vista artistico e architettonico, sia da un punto di vista storico e spirituale. Alcuni frati abbandonarono, all’inizio del ‘300, l’antico luogo di S. Francesco ad Alto ed edificarono la chiesa ed il Convento di San Francesco delle Scale, con il bellissimo portale e la committenza di opere d’arte di particolare pregio e valore.
La chiesa fu edificata il 14 agosto 1323 dai Francescani e dal vescovo Nicolò degli Ungari, e originariamente dedicata a S. Maria Maggiore. Soltanto nel 1447 venne costruita la grande scalinata, che copriva l’intera area dell’attuale Piazza S. Francesco, da cui prese la denominazione. La scala fu progettata da Giorgio Orsini da Sebenico e realizzata da mastro Domenico con due rampe da 30 gradini ciascuna.
La prima Chiesa di S. Maria in porta Cipriana la si trova indicata la prima volta in un atto testamentario del 1262, mentre dall’anno 1303 è già esistente la chiesa di S. Anna. Era vicina all’episcopio, il quale si era spostato nel palazzo dei Toroglioni, poi Acciajoli, dove nel 1700 di nuovo dimoravano i vescovi. La chiesa parrocchiale di S. Maria a porta Cipriana rimase in piedi sino al 1546 circa poi passò a quella di S. Pietro, gli avanzi dell’antico convento della fine del 1200 si trovano nell’attuale teatrino con due archi di finestre.
La Chiesa di S. Maria in porta Cipriana fu costruita dopo la morte del Santo verso il 1235, mentre la chiesa e convento di S. Maria poi di San Francesco (ad Alto) furono costruiti quando Francesco era ancora in vita, nel periodo tra i due suoi passaggi ad Ancona, nel 1220 e nel 1225. I frati di S. Francesco (ad Alto) si unirono nel nuovo convento e chiesa di S. Maria Maggiore, per ritornare in parte nel vecchio convento ristrutturato nel 1400.
Nel 1454, Giorgio Orsini da Sebenico realizzò sulla facciata il portale presente ancora oggi, che riecheggia l’impianto architettonico gotico fiorito della Porta della Carta del Palazzo Ducale di Venezia, alla quale l’artista dalmata aveva precedentemente lavorato. I Frati Minori Cappuccini avevano anch’essi ad Ancona un bellissimo luogo sul Colle del Cardeto, nella zona del Faro vecchio; la chiesa iniziata nel 1579 fu terminata nel 1621: abbiamo qualche foto antica che ricorda quel luogo integro.
I Frati Cappuccini hanno visto trasformato in zona militare, un nuovo edificio, intitolato S. Maria delle Grazie, che hanno abitato fino a pochi anni or sono. Oggi si dedicano a tempo pieno alla assistenza dei malati nell’Ospedale regionale di Torrette.
I Frati Minori hanno abitato durante il XX secolo nell’antico Monastero dei Canonici Lateranensi, ossia in S. Giovanni di Capodimonte. Lo hanno lasciato nel 2008; in quel luogo, nel frattempo, erano state portate le reliquie del Beato Gabriele Ferretti.
Da Ancona, aggirando il Monte Conero, si arriva alla vicina piccola ma graziosissima città di Sirolo, posta come un faro sul promontorio del Mare Adriatico, tra le pendici del Monte e lo strapiombo sul mare. Nell’antico Convento di San Francesco, oggi trasformato in villa privata, si possono ancora evocare le vicende spirituali dei Beati Corrado da Offida e Pietro da Treia (I Fioretti di San Francesco, cap. 42; FF 1879-1880).
«E il detto frate Currado una volta, nello luogo di Sirolo, con le sue orazioni liberò una femmina indemoniata, orando per lei tutta la notte e apparendo alla madre sua; e la mattina si fuggì per non essere trovato e onorato dal popolo».
Il corpo del Beato Pietro da Treia, morto nel 1305 nell’antico Convento di S. Francesco, riposa nella chiesa della Beata Vergine del Rosario all’interno della cittadina di Sirolo, ivi trasportato dopo che la chiesa francescana era stata demolita, alla fine dell’’800, a seguito delle vicende legate alla soppressione degli Ordini religiosi.
Visita obbligatoria è quella al celebre Santuario mariano di Loreto. Custode della S. Casa di Nazareth e di un patrimonio artistico che, fin dal 1294, anno della venuta miracolosa della Casa, si è accresciuto attorno ad essa con opere pittoriche, marmoree e lignee di Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Andra Sansovino, Antonio da Sangallo il Giovane, Benedetto da Maiano, Lorenzo Lotto, il Pomarancio, Innocenzo da Petralia, mentre a continuare in forme rinascimentali la Basilica gotica intervennero Giuliano da Sangallo, Francesco di Giorgio Martini e anche il Bramante. Della presenza francescana in questa città si deve fare menzione sia della presenza di un “hospitium” dal 1824, sia del servizio al Santuario della S. Casa, come Penitenzieri, da parte dei Frati
Conventuali, dal 1773 fino al 1934, e oggi dei Frati Cappuccini, a partire dal 1934. Mentre i Frati Minori avevano il loro “hospitium” di S. Benigno, dal 1620, nell’attuale sito dell’Ospedale e quello più recente, acquisito nel 1909, sempre, col nome di S. Benigno, accanto alla Parrocchia del S. Cuore, assunta nel 1930, sempre nelle vicinanze dell’Ospedale.
Da Loreto è d’obbligo proseguire per la città di Recanati, famosa, oggi, per la poliedrica e “favolosa” figura del grande poeta Giacomo Leopardi, ma dal punto di vista francescano per la Chiesa ed il Convento S. Francesco, dove visse il Beato Benvenuto da Recanati.
A Recanati vi sono i resti del Convento e della Chiesa della SS. Annunziata, dei Frati Minori dell’Osservanza, oggi inglobato nel civico Cimitero. Anche i Frati Cappuccini hanno in questa città il loro Convento e Chiesa, e sede del Centro delle missioni estere. Le Monache Clarisse avevano fino al 1800 il loro Monastero nella frazione di Castelnuovo.
Ad Osimo, S. Francesco, con la pecorella al seguito, incontrò e commosse il Vescovo della città. Risalendo l’antica via che conduce a Osimo, è possibile oggi visitare la chiesa dei Santi Martiri, dove, secondo la tradizione, S. Francesco e frate Paolo avrebbero incontrato il pastore e le pecore, e avrebbero ricevuto in dono la pecorella. È possibile far visita alla Cattedrale romanica con la cripta che custodisce le spoglie di uno dei primi Vescovi francescani, S. Benvenuto, e alla chiesa di S. Francesco, oggi Santuario di S. Giuseppe da Copertino, con annessi i locali in cui è vissuto il “Santo dei voli”, patrono degli studenti. L’origine del Convento e della chiesa dovrebbe risalire al 1234, dopo una prima residenza presso una cappella di S. Maria Maddalena. La chiesa conserva l’antica abside gotica, ma è stata totalmente ricostruita nel 1774-1967.
I Frati Minori avevano il loro Convento della SS. Annunziata nell’attuale cimitero; avendo dovuto abbandonarlo nel 1865, a seguito delle leggi legate alla formazione dello Stato italiano. Il “Polittico dell’Incoronazione della Vergine e Santi”, dei fratelli Vivarini (1464), apparteneva a questa chiesa, e faceva da pala all’altare maggiore. Si trova ora nel Museo Civico della città di Osimo. Furono accolti nella chiesa parrocchiale di S. Maria della Misericordia, antico luogo di esecuzioni capitali, per i rei condannati a morte, trasformato appunto in luogo di misericordia e di grazia. Oggi, la chiesa parrocchiale ed il Convento, sotto lo stesso nome, sono stati costruiti da nuovo negli anni ‘70 ed ospitano una bella comunità cristiana e francescana. Quanto ai Monasteri di Clarisse, Osimo ne vanta addirittura cinque. Il primo fu quello di S. Michele, del XIII secolo, soppresso nel 1510, per mancanza di vocazioni. Un secondo Monastero, di Terziarie, venne eretto nel 1490, in una casa dedicata a S. Margherita, nei pressi della Parrocchia S. Gregorio. Molto importante, sia dal punto di vista storico, sia da quello religioso, sia da quello artistico, è il Monastero delle Clarisse di San Nicolò, antico Monastero benedettino e dal 1536 di Clarisse. Al suo interno si trova una antica cripta e due cappelle con affreschi trecenteschi. Un Monastero di Monache Cappuccine, eretto nel 1708, è stato quello della Ss. Vergine Addolorata, chiuso però una ventina di anni fa. Infine, il Monastero San Rocco e Santa Rosa, che ebbe origine nel 1806, da terziarie poverelle, di impronta cappuccina, chiuso nel 1951, per ristrettezze economiche e mancanza di vocazioni.
L’itinerario lungo l’antico diverticolo romano della Flaminia, immerso nell’armonia dei dolci colli della campagna maceratese, prosegue per Forano (nel Comune di Appignano): un “luogo” che sembra una replica della “Porziuncola”, un tempo immerso in un gran bosco di querce, con l’ospedale per pellegrini gestito dai monaci di Chiaravalle di Fiastra. Qui fu ospitato S. Francesco, come anche ricorda l’iscrizione sull’arco della porta dell’antica chiesetta dedicata alla Vergine. A Forano si rievocano gli episodi legati alla vita dei Santi frati Pietro da Treia e Corrado da Offida (I Fioretti, capp. 42 e 44), riportati per la testimonianza della loro fede e della loro fraterna e intensa amicizia, oltre a quella di tanti altri Beati e Santi francescani in ottocento anni di storia: questo luogo, ottenuto dai monaci, è stato nei secoli considerato particolarmente adatto a custodire la perla preziosa della vita evangelica.
Poco distante dal convento si erge una deliziosa cappella che ricorda il luogo esatto dell’apparizione della Vergine a frate Corrado.
A Treia, ugualmente, la presenza francescana in una relativamente piccola città è completa e significativa e si è affermata nel corso dei secoli. Il primitivo eremo francescano era situato a S. Margherita (presso cui è rimasta una “fonte dei frati”, in zona Vallesacco), dove è entrato probabilmente nell’Ordine e vi è vissuto per qualche tempo il Beato Pietro da Treia, di cui abbiamo letto gli episodi narrati da I Fioretti. Un altro luogo francescano era situato in zona Valcerasa, vicino a Passo di Treia, dove si insediarono i Clareni, fino al 1629.
Dentro la città, però, i Frati si collocarono nel Convento e nella Chiesa S. Francesco, che ancora oggi, sebbene rifatta, ricorda la storia francescana antica di questa città. Il Convento, di proprietà comunale, è sede delle scuole. I frati Conventuali hanno lasciato Treia nel 1966, dopo alterne vicende di presenza e assenza.
I Frati Minori giunsero a Treia, dal vicino Convento di Forano, nel 1671 ed ebbero in custodia il prezioso Crocifisso ligneo di autore ancora ignoto della fine del ‘400-inizio ‘500. I frati, nei decenni successivi al loro arrivo costruirono il Convento e riedificarono la Chiesa, la cui ultima fattura risale all’inizio del ‘900, dopo un rovinoso incendio del 1902.
I Cappuccini ebbero a Treia il loro Convento nella sede dell’attuale Villa Spada, a partire dal 1575. Lo dovettero abbandonare nel 1811. Infine, le Clarisse, a Treia, si trovavano nel Monastero S. Chiara o delle Cappuccine, dopo che ve ne era stato uno più antico denominato S. Caterina, di cui, però si hanno poche notizie. Quanto a quello di S. Chiara, fu edificato nel 1580-86; subì la soppressione nel 1867 e fu abbandonato nel 1890. Fu, riaperto dalle Suore Visitandine, che entrarono nel 1894. Oggi è abbandonato anche da quest’ultime, a causa della diminuzione del numero delle suore ed il Comune vi ha collocato delle scuole.
L’itinerario prosegue per S. Severino Marche, città ricca di storia, arte e cultura come poche altre, profusa nelle sue chiese (dal romanico al barocco), nella sua piazza di forma ellittica, nella fornitissima Pinacoteca, nei palazzi, nelle tante torri. Distesa nella valle del Potenza (risalendo la quale Francesco poteva far ritorno in Umbria per la via di Pioraco e Nocera), la domina dall’alto del suo colle il pittoresco nucleo medievale con il Castello. A S. Severino incontriamo diverse figure legate alla vita di S. Francesco e alla storia francescana. Il primo di questi è frate Pacifico, ovvero Guglielmo da Lisciano di Ascoli Piceno, che era stato il famoso “Re dei versi”, incoronato dall’imperatore Federico II, e che poi, fattosi Frate Minore, per il padre S.Francesco musicò il Cantico delle creature o di frate Sole.
Il famoso “Re dei versi”, Guglielmo da Lisciano, aveva incontrato Francesco molti anni prima, proprio qui a S.Severino. Era venuto a far visita a una sua parente monaca “con molti amici” giullari come lui, nel monastero di S. Salvatore di Colpersito.
Il monastero di S. Salvatore si erge ancora sul colle di fronte S. Severino, ora animato dalla presenza dei frati Cappuccini. Probabilmente, in occasione della prima visita di Francesco le “povere recluse” di Colpersito avevano conosciuto Francesco e successivamente, di certo a partire dal 1223, accettato “le osservanze” delle Povere Dame di S. Damiano. Esse sono le “povere recluse” a cui Francesco, ritornando da Ancona verso Assisi, lasciò l’agnellino riscattato presso Osimo dal gregge di caproni. Presenti nel monastero di Colpersito fino al 1252, emigrarono poi nella parte alta di S. Severino, al riparo della cinta muraria.
S. Bonaventura precisa che il monastero si trova a S. Severino e c’informa che Francesco “stava predicando sulla Croce di Cristo” quando il giovane poeta lo vide “segnato da due spade splendentissime, disposte a forma di croce”, e allora “come trafitto dalla spada dello Spirito”, quella della predicazione della Parola, chiese di entrare nell’Ordine. La Croce su cui Francesco predicava è ancora là, nella chiesa di Colpersito: si tratta di un romanico Crocifisso di legno dallo sguardo maieutico, vincitore sulla morte.
Fra Pacifico fu tra i frati più vicini al Santo: fu lui a vedere un grande tau illuminare meravigliosamente e con grande varietà di colori la fronte di Francesco; fu poi lui uno dei pochi a vedere e toccare le stimmate del Serafino Crocifisso sulla carne di Francesco quando questi era ancora in vita; e ancora un noto episodio lega fra Pacifico a un altro Crocifisso ligneo: pregando davanti ad esso e rapito in estasi, vide nel cielo una serie di troni e uno in particolare “più bello degli altri, ornato di pietre preziose e tutto raggiante di gloria”, e udì una voce dire che quel trono era appartenuto a Lucifero ma ora era riservato “all’umile Francesco”. Fra Pacifico, il poeta, è così figura emblematica dell’uomo spirituale, dalla profonda capacità visiva, che sa trarre da un incontro e da un’immagine un grande programma di vita: per lui a Colpersito, come per Francesco a S. Damiano, all’origine c’è sempre il Crocifisso-Risorto. Di S. Severino è anche frate Bentivoglio, di cui parlano I Fioretti.
Il corpo di frate Bentivoglio è ancora a S. Severino, nella chiesa di S. Maria dei Lumi, insieme a quello di un altro protagonista de I Fioretti: Pellegrino da Falerone (I Fioretti, cap. 27). Nel Settecento fu S. Pacifico Divini a testimoniare la feconda vitalità spirituale di questa città, ricchissima di ricordi francescani: è d’obbligo una visita al Santuario, già quattrocentesco eremo di S. Maria delle Grazie. Al Castello, attraversata la Porta di S. Francesco lungo la medievale cinta muraria e le rovine della duecentesca chiesa francescana (nel convento annesso dimorò anche S. Bonaventura), presso il locale Monastero delle Clarisse si conclude il viaggio rievocando il commovente scambio di doni tra la pecorella consegnata da Francesco e da frate Paolo e la tonaca confezionata con la sua lana dalle Sorelle Povere.
Passando per Gagliole, si raggiunge l’antica città romana di Matelica. Matelica, antico sito piceno, municipio romano, sede episcopale, governata dai Conti Ottoni fino alla fine del ‘500, passata poi sotto il dominio della S. Sede, unita come Diocesi a Fabriano nel 1785, è stato uno dei luoghi più ricchi di presenza francescana fin dalle origini. Occorre, infatti, risalire ai primordi dell’Ordine per ritrovare le tracce della presenza e dell’attività dei francescani, sia dei Frati Minori, sia delle Clarisse, sia dei laici, uomini e donne di penitenza e di vita comune.
Nel 1256, come si rileva da una pergamena conservata nel Monastero S. Maria Maddalena delle Clarisse di Matelica, alcune pie donne, che in quell’anno si riunirono insieme alle Clarisse nel Monastero cittadino, precedentemente nel distretto di Matelica”.
Queste pie donne, secondo il testo della pergamena, vivevano insieme ad altre 5 persone, uomini e donne, indicati come “familiari” ossia oblati. Questi uomini e donne che vivevano insieme sono dei laici consacrati che “vivono senza regola o legame di obbedienza”, decidono di porsi sotto una regola ufficiale di vita, tanto più che questa regola era stata soltanto tre anni prima, nel 1253, approvata e confermata dal Signor Papa, proprio alla vigilia della morte di S. Chiara.
Dunque, alle pendici del Monte S. Vicino abbiamo già nei primi decenni della vita francescana una serie di comunità che ci testimoniano della presenza dei tre Ordini di vita al seguito del Poverello. È evidente che, se nel 1256 le pie donne lasciarono il luogo che una volta era stato dei Frati Minori, si può facilmente arguire che la loro presenza in questa sede risalga ai primi tempi della fondazione dell’Ordine.
L’eremo di S. Francesco di Acquaviva, viene ancora oggi identificato con S. Claudio di Acquaviva, nella zona vicino all’attuale borgo di Braccano, alle pendici del Monte S. Vicino che volge verso Matelica, assai vicino ad un altro luogo che poi, una cinquantina d’anni dopo il 1256, fu abitato dai frati francescani Clareni, ossia S. Giovanni di Foro, oggi meglio conosciuto come S. Giovannino de Fora.
Questo versante della valle dell’Esino alle pendici del Monte S. Vicino è, in effetti, un sito di insediamenti monastico-religiosi di notevole importanza nella storia e nello sviluppo della vita religiosa non solo della città di Matelica, ma particolarmente del mondo benedettino e francescano della regione, al punto tale che il grande storico francescano P. Giacinto Pagnani l’ha definito “una vera tebaide nel cuore delle Marche”.
Più in alto dei due siti francescani delle origini si trova, infatti, la famosa abbazia di S. Maria de Rotis, oggi purtroppo in rovina e quasi completamente diroccata. Questa abbazia, evidentemente presiedeva a tutti questi luoghi di vita religiosa della zona, insieme agli altri tre Monasteri che circondano il Monte S. Vicino: S. Salvatore di Val di Castro, SS. Trinità e S. Maria di Valfocina. Aveva avuto origine nel secolo VIII, ebbe un notevole sviluppo a partire dal XII secolo. All’inizio del XIII secolo ci sono 8 monaci, compreso l’abate, un prevosto, un priore ed un converso (cfr. A. ANTONELLI S. Maria de Rotis, in C. CASTAGNARI ed., Abbazie e castelli della Comunità montana alta valle dell’Esino, 1990, 389-391). Le vecchie abbazie benedettine furono i primi luoghi di riferimento di S. Francesco e dei suoi figli spirituali: i monaci diedero ben volentieri ai nuovi frati mendicanti molti dei luoghi di vita spirituale che altrimenti avrebbero subito abbandono e declino.
Così, dopo l’eremo di S. Claudio di Acquaviva, i frati francescani continuarono ad occupare altri luoghi in questo versante del Monte S. Vicino.
S. Giovanni de Fora ovvero di Fuori, per distinguerlo ovviamente da un S. Giovanni dentro le mura cittadine (come ci riferisce Don Amedeo Bricchi, nel suo studio su Matelica e la sua Diocesi, pag. 178, nota 10), fu abitato dai frati Clareni “ortodossi” o della “Povera Vita”, approvati dalla Chiesa e integrati nel grande ordine francescano. Nel 1500, al tempo del Papa Pio V si unirono al ramo dei Frati Minori Osservanti, che continuarono ad abitare nel Conventino di campagna, uniti a quello di S. Francesco della città, fino al 1810 prima e poi fino al 1861, quando dovettero subire dapprima la soppressione napoleonica e successivamente quella italiana (cfr. A. SANCRICCA, La definitiva incorporazione dei fratres di Angelo Clareno nell’Osservanza cismontana con riferimento allo stato dei Conventi della Marca, 259; 293-294). Il Conventino è ancora in parte visibile, grazie al fatto che rimane la chiesetta e il chiostro, con varie lunette affrescate, con episodi della vita di S. Giacomo della Marca. Certo, essendo adibito a civile abitazione, ha perso ormai la sua originaria destinazione d’uso, ma, volesse Iddio che, non cada in rovina essendo testimone di una antica, gloriosa, umile e discreta presenza di frati che hanno cercato e trovato il tesoro della gioia e della pace nella preghiera e nel silenzio. S. Giacomo di Braccano, si trova più vicino degli altri al castello di Braccano, fu abitato dai frati Clareni, poi Osservanti. Nel 1454 vi si ritirò per condurre vita regolare francescana uno dei rampolli della nobile e potente famiglia matelicese degli Ottoni, Federico di Francesco, vi dettò il suo testamento e vi chiuse i suoi giorni. Nel 1525 vi dimorava Frate Francesco da Cartoceto, che accolse nell’eremo Frate Matteo da Bascio, iniziatore e promotore del nuovo Ordine dei frati Cappuccini. L’eremo passò di fatto ai Cappuccini, i quali vi risedettero fino al 1578, quando si trasferirono più vicini alla città, nel Convento nelle adiacenze alla Stazione ferroviaria. Oggi, purtroppo, il luogo, da tempo trasformato in casa colonica, è quasi completamente distrutto.
Anticamente esisteva, in questa zona così ricca di vestigia sacre, anche un terzo convento di frati di origine francescana, quello di S. Lorenzo di Afrana, nella zona di Campamante di fuori, dove i frati francescani erano dapprima sotto la regola del III Ordine di obbedienza vescovile, poi sotto la regole del I Ordine di obbedienza vicariale, e vi rimasero almeno fino al 1568 (cfr. A. SANCRICCA, La definitiva incorporazione dei fratres di Angelo Clareno nell’Osservanza cismontana con riferimento allo stato dei Conventi della Marca, 259; 294-295). Fu abitato nel ‘300 dai Fraticelli, un gruppo di frati che pur facendo riferimento alla Regola e allo stile di vita francescana, si erano però a poco a poco e in varie maniere resi autonomi e facinorosi, a causa dei loro eccessi in contestazione e provocazione della Chiesa e dei suoi esponenti ecclesiastici e religiosi. Erano chiamati dalla gente i frati “cattivi”, e, nonostante il tentativo del Vescovo di Camerino di sottometterli ad una regola comune di vita, subirono le censure e le repressioni della Chiesa ufficiale, che doveva preservare l’ambiente di vita cristiana immune da pericoli e da confusioni di vario genere, causato dalla insubordinazione e ostinazione di tali frati a non voler sottostare alle ordinate e regolari forme di vita religiosa.
Questa grotta, vicina ad altre dette popolarmente “dei frati”, aveva anticamente a che fare con un insediamento umano-religioso, probabilmente dipendente da una delle antiche abbazie benedettine, i frati l’abitarono nel corso del ‘300 e l’abbandonarono sicuramente nel 1434.
Quale di questi luoghi del Monte S. Vicino sia stato esattamente quello a cui il Beato Bentivoglio dovette andare a vivere poveramente e caritatevolmente, non è dato con certezza storica assoluta sapere, ma è certo che in queste pareti di montagna, quell’aquila trovò davvero il suo nido, il suo luogo naturale di vita spirituale, di preghiera e di santità. Ancora oggi si possono ripercorrere delle valli attraversate da ruscelli e fiumi di acqua fresca e pura, pianori aperti al sole che illumina di colore e di vita la natura circostante, sentieri ghiaiosi e plurisecolari non alterati dal tempo e dalla modernità: un paesaggio incantevole, un luogo per ritrovare e risentire lontane voci di canto e di preghiera, cammini di frati innamorati di Dio che anche di recente passeggiavano in queste praterie della bellezza e della freschezza di primavera. Sta di fatto che questa zona del Monte S. Vicino, ha avuto questa grande fioritura di luoghi francescani, che hanno dato origine, poi, a quelli più ufficiali della città, sui quali ci fermeremo più avanti.
Dalle pendici del monte S. Vicino, i francescani si trasferirono in città, fenomeno conosciuto di inurbamento, di avvicinamento alla gente e alla vita della gente.
I frati che abitavano il conventino o meglio l’eremo di S. Francesco di Acquaviva, probabilmente negli anni ’30-‘40 del ‘200, come facevano anche altrove, lasciarono, almeno in parte, i luoghi antichi, per trasferirsi accanto a quella gente che volevano profondamente evangelizzare, curare spiritualmente e edificare con il loro stile di vita povero e fraterno. Scendendo in città, i frati si collocarono sul versante che dava direttamente verso gli antichi insediamenti, come per una specie di legame storico e spirituale, anche perché gli stessi monaci dell’abbazia di Roti, verosimilmente donarono ad essi quella prima dimora dentro le mura della città, come testimonia una tabella scolpita e collocata accanto alla porta di ingresso alla Chiesa, con l’immagine di un sacerdote o abate, con la dicitura S[ignum] Domini Lapi, ossia l’abate di quel monastero che dal legame con i “nuovi” frati nella collina adiacente al loro antico ambiente di vita, continuarono a tenersi legati all’evoluzione e allo sviluppo del nuovo Ordine. Una testimonianza dello storico Giovanni Battista Razzanti ci dice di aver trovato una dissertazione nella quale si trova “che esso Convento fosse fondato dentro Matelica in tempo del Padre Pietro [da Vercelli]…che fu eletto Provinciale della Marca nel 1234” (in A. BRICCHI, Matelica e la sua Diocesi, Matelica, 1986, 180). Appena dentro le mura, i frati costruirono la chiesa e il conventino, che ampliarono a poco a poco, secondo le esigenze di coloro che frequentavano e necessitavano il loro luogo di preghiera e di vita. I frati che avevano scelto di scendere in città e di stare più vicini alla gente erano chiamati della Comunità e successivamente Conventuali. La loro chiesa divenne un punto di riferimento per gli abitanti di Matelica, era la più frequentata, il luogo di sepoltura di tante persone ad essa legate e di cappelle assegnate alle famiglie più notabili della città, in essa “si rogavano atti notarili e si tenevano le adunanze delle corporazioni” (L. BARTOLINI SALIMBENI, Le strutture architettoniche degli insediamenti francescani, in L. BARTOLACCI – R. LAMBERTINI Presenze francescane nel camerinese, secoli XIIIXVII), Ripatransone, 2008, 380).
Fu resa sempre più bella, fino a diventare una vera e propria Pinacoteca, uno scrigno di opere d’arte di eccezionale valore. Abbiamo preziose testimonianze dell’arte, ancora oggi totalmente o in parte visibili e tangibili. Della chiesa duecentesca primitiva rimane il portale romanico in marmo di Verona; del ‘300, nelle pareti dell’abside, per la maggior parte nascosto sotto l’intonaco, si conserva un ciclo di affreschi del grande artista fabrianese Allegretto Nuzi (ca 1320- 1373), di cui emerge attualmente solo un intenso e raccolto volto di S. Francesco, che dona il mantello al povero e il sogno di Innocenzo III, definito “il più antico ciclo agiografico francescano affrescato noto nelle Marche” (M. PARAVENTI, Arte e committenza francescana nel territorio tra XVI e prima metà del XVII secolo, in L. BARTOLACCI – R. LAMBERTINI, Presenze francescane nel camerinese secoli XIII-XVII, Ripatransone, 2008, 305) è da immaginare, quindi, la bellezza di tutta la chiesa gotica trecentesca, interamente affrescata, come tante altre chiese contemporanee locali, dello steso stile e dello stesso ordine.
Del ‘400 abbiamo, nella cappella degli Ottoni, un trittico oggi attribuito alle prime opere dell’artista matelicese Luca di Paolo (1440 circa-1491), rappresentante, al centro, la Vergine col Bambino, al suo lato sinistro S. Bernardino da Siena, predicatore a Matelica il 12 settembre 1438 e, al lato destro, S. Francesco. Quest’opera era probabilmente legata ad una grande pala vista dallo storico Sennen Bigiaretti all’inizio del ‘900 (cfr. per molte notizie A. BUFALI Committenze artistiche di francescani e agostiniani a Matelica nel rinascimento, in Gli ordini mendicanti (secc. XIII-XVI) (Studi maceratesi 43), Macerata, 2009, 692). Nella stessa cappella si trovava uno dei capolavori del grande artista Carlo Crivelli (Venezia 1430/35-Ascoli Piceno 1494/95), ossia la famosa Madonna della Rondine, tra i Santi Girolamo e Michele, realizzata tra il 1491 e il 1494, su commissione dell’ammirabile frate Giorgio di Giacomo da Matelica, guardiano per 50 anni del convento matelicese e committente delle varie opere d’arte della chiesa: l’opera del Crivelli fu venduta, purtroppo, nel 1862 da un tale Luigi De Santis, che se ne riteneva autorizzato e proprietario, alla National Gallery di Londra, in cui si conserva ancora oggi.
Del ‘500 sono la maggior parte delle opere. Dell’inizio del ‘500 abbiamo una tavola, originariamente fatta per l’altare maggiore, di Marco Palmezzano (+ 1539), discepolo di Melozzo da Forlì (si firma, infatti con Marchus de Melotius forolivensis faciebat al tempo de frate Zorzo guardianus del 1502) che rappresenta la Madonna in trono con Bambino, con ai fianchi S. Francesco e S. Caterina d’Alessandria, con vari santi nei pilastrini laterali e nella base, con la lunetta superiore rappresentante la Pietà, la Maddalena, S. Giovanni e S. Ludovico di Tolosa. Del ‘500 sono pure alcune opere del pittore di Arcevia Ercole Ramazzani (1530- 1598): sono da ricordare due tele, una dell’Immacolata Concezione della Vergine, del 1573, nel contesto della Genesi, con Adamo ed Eva, e l’altra, del 1574, dell’Ascensione del Signore, con la Madonna e gli apostoli. Questa viene additata come punto di riferimento allorquando il Figlio è salito al cielo: furono commissionate da donna Nicola, vedova del nobile Paolo Baglioni da Gualdo, che aveva decorato la Cappella. Del Ramazzani, abbiamo anche una tela, del 1568, tra le più conosciute dell’artista arceviese, per l’altare del suffragio, opera commissionata da Cesàrea Varano, moglie vedova di Anton Maria Ottoni, illustre famiglia di Matelica: si tratta della Liberazione delle anime dal purgatorio, con i santi Gregorio Magno, Papa, il suo Diacono S. Pietro, San Francesco d’Assisi e S. Margherita da Cortona, più comunemente individuata come S. Camilla Battista da Varano, prozia di Cesàrea, con tratti molto diversi dall’iconografia tradizionale.
Del pittore perugino Eusebio da S. Giorgio (1465-1540), si firma Eusebius de schola Georgio Perusinus, discepolo del Perugino e compagno di Raffaello, è presente fin dal 1512 un’altra tavola, commissionata da Dionisio Periberti, raffigurante la Vergine con Bambino, con ai lati S. Giovanni Evangelista e S. Antonio di Padova a sinistra e con S. Andrea Apostolo e S. Nicola da Tolentino, a destra. Due altre grandi pale di altare sono opera dei grandi maestri e pittori di Caldarola, Simone e Giovanni Francesco De Magistris, l’Adorazione dei Magi (1566) e il Martirio di S. Stefano del 1569: ovvero il titolo delle due opere deve essere specificato meglio.
Di un altro artista originario di Caldarola è La Crocifissione (1569), ossia di Durante Nobili (1508-1578), con la predella dei De Magistris, con tre scene che ne completano il quadro, ossia la Deposizione al centro, la Discesa agli inferi a destra e la Risurrezione a sinistra. Infine, a destra e sinistra della predella si trovano i Santi Crispino e Crispiniano, patroni dei calzolai, dato che il munifico benefattore fu Pier Simone dell’Arpa da Fabriano, calzolaio, appunto. Questa pala della Crocifissione, secondo il Bigiaretti, seguito oggi da alcuni storici e critici, fu una sostituzione di quella di Simone De Magistris, poi trasportata a Esanatoglia.
In un’altra Cappella si trova, invece, la grandiosa tela della Vergine con Bambino e S. Giovanni Battista, S. Pietro, S. Paolo, S. Giuseppe e S. Diego, attribuita al pesarese Simone Cantarini (1612-1648). Dello stesso periodo, o giù di lì, è il quadro delle Stimmate di S. Francesco, di Lodovico Cardi, detto Il Cìgoli (1559-1613) e il Gonfalone della SS. Trinità (1634), dell’omonima confraternita.
Una chiesa, dunque, tra le più ricche del grande patrimonio francescano della Regione: tre secoli di particolare bellezza, con committenza da parte dei Conventuali, prima, e degli Osservanti, poi. Nel 1518, l’anno successivo alla divisione uffi iale tra i due rami dell’Ordine francescano, il Convento passò, non senza tensioni e problemi, data la sua importanza storica e la sua ricchezza di beni artistici e di tradizioni spirituali, alla famiglia degli Osservanti, che avevano già rianimato il luogo antico di S. Giovannino de Fora, e che ora si proponevano, sulla scia di S. Bernardino da Siena e S. Giacomo della Marca, di rievangelizzare l’Italia e l’Europa, cadute sotto una crisi di fede e di morale di immensa vastità e proporzione, con il sopraggiungere anche della divisione protestante.
S. Giacomo della Marca venne qui a Matelica nel 1444 e la sua predicazione fu particolarmente intensa e incisiva: colpì un male terribile, come quello della pedofilia. Un tale che lo ascoltava e che era colpito direttamente al cuore da quelle parole, decise di ucciderlo all’indomani in occasione del suo passaggio sulla strada verso Gagliole. Ma, nascosto dietro un’edicola della Madonna, la sua mano si paralizzò, proprio nel momento in cui stava per sferrare il suo colpo mortale. Dovette, poi, andare a Fermo, per implorare il perdono e la grazia di Dio, da parte del grande apostolo francescano marchigiano. L’edicola è stata inglobata nell’attuale cimitero, e l’affresco della Madonna, staccato, è stato collocato nella Cappella del Cimitero, mentre nella vicina fonte recentemente restaurata, è stata fatta una copia in mosaico per ravvivare il ricordo del fatto prodigioso.
Il Convento S. Francesco, così glorioso e così monumentale, in cui si conservano anche un Oratorio della passione dei pittori di Caldarola De Magistris e Nobili del 1569 e un ciclo di lunette del chiostro del pittore Francesco Rossi da Orciano del 1690, assai mal ridotti per l’umidità, ha subìto, purtroppo, i danni del tempo e dell’abbandono; la chiesa necessità di lavori di restauro e di salvaguardia, data la sua particolare e singolare bellezza; entrambi, con le due soppressioni ottocentesche perdettero l’opera del Crivelli, ma sono ancora rimasti come una preziosa reliquia di una grande storia, bisognosi di essere rivitalizzati certo, ma nello stesso tempo sono ancora custodi di un immenso amore che ha attraversato i secoli.
La ricchezza delle presenze francescane in questa città è attestata e confermata dalle grandi figure di santi che sono usciti da questa terra, in modo particolare, alla fine del ‘200 e agli inizi del ‘300: il Beato Gentile e la Beata Mattia, appunto, da Matelica. Il Beato Gentile nacque attorno 1230 dalla nobile famiglia Finaguerra, che aveva la sua casa accanto alla Chiesa e al Convento S. Francesco. Inviato al Santuario della Verna, dove S. Francesco aveva ricevuto le S. Stimmate, ne fu Guardiano per vari anni dando un esempio di vita di preghiera e di santità davvero ammirevole. Desideroso di portare il Vangelo nella regione della Persia, partì per quelle terre. Avendo cercato di apprendere la lingua araba, giunse in Persia, e proseguì per la Crimea e l’Armenia. Fu preso dai maomettani e ucciso il 5 settembre 1340: i suoi resti mortali furono portati a Venezia e sono venerati nella Chiesa dei Frati, mentre un osso del braccio è stato portato a Matelica, nella Chiesa S. Francesco, nel 1625.
La Beata Mattia de’ Nazzarei a cui la sua città è profondamente legata, nacque nella prima metà del ‘200, da una famiglia ricca e nobile. Nonostante le resistenze del suo padre Guarniero, Mattia volle consacrarsi al Signore. Entrata in Monastero, emise la professione nel 1271 e ne divenne presto abbadessa, conservando questo ufficio fino alla morte avvenuta il 28 dicembre 1320. Pochi giorni dopo la morte il popolo di Matelica la volle onorare, ponendola nella stessa chiesa, accanto all’altare maggiore. Nel 1765 il Papa Clemente XIII ne confermò solennemente il culto.
Il fenomeno di ricchezza e di diffusione del francescanesimo in questa città, comprende in maniera particolare il Monastero delle Clarisse di S. Maria Maddalena ed il Convento dei Frati Cappuccini.
Per quanto riguarda il Monastero delle Clarisse, difficile è ricostruire con dati storicamente certi la sua origine. Sappiamo che le Clarisse abitavano originariamente il Monastero di S. Maria degli Angeli, adiacente al Palazzo degli Ottoni. Nel 1230 il Vescovo di Camerino emise una Bolla, con cui concedeva un’indulgenza a quei fedeli che avessero contribuito con le loro offerte alla costruzione del Monastero. Nel 1268 era stato costruito il Monastero di S. Agata vicino a quello di S. Maria Maddalena. Essendo le monache poche e povere fu deciso di unirle a quello più grande e significativo di S. Maria Maddalena; l’unione avvenne nel 1286 (cfr. A. BRICCHI, Matelica e la sua Diocesi, Matelica, 1986, 28). Nel 1520 le figlie di S. Chiara di S. Maria degli Angeli furono trasferite in quello di S. Maria Maddalena, che era stato Monastero benedettino. Nel 1755 fu ammodernata la Chiesa, nelle fattezze attuali. Molte le opere d’arte presenti nel Monastero: tra cui una croce dipinta del XII secolo, una pala della Madonna col Bambino nella culla ed un’altra della Madonna col Bambino nella culla del XV secolo.
Per quanto si riferisce ai Cappuccini, la storia della loro presenza a Matelica risale ai primissimi anni della loro storia. Infatti, dapprima, grazie al P. Francesco da Cartoceto, a cui si unì il Padre Matteo da Bascio, essi trovarono il primitivo asilo nell’Eremo di S. Giacomo di Braccano (1525): i frati lo abbandonarono nel 1550. Richiesti della loro presenza in città, nel 1578 si iniziò la costruzione di un vero e proprio Convento, nella collina retrostante alla odierna stazione ferroviaria, località denominata allora proprio il colle dei Cappuccini. La Chiesa fu dedicata alla SS. Trinità. I frati vi rimasero fino al 1866, quando forzatamente lo dovettero lasciare. Il Convento venne giuridicamente chiuso nel 1874. Divenne col tempo casa colonica e la chiesa fienile. Ancora oggi, però, rimangono il chiostro e le arcate d’ingresso con strutture di chiara derivazione conventuale (cfr. R. LUPI, I Cappuccini della Marca. Fonti documentali, 1, Ancona, 2007, 1086-1087). Nella chiesa si conservavano varie opere d’arte (un elenco lo si può trovare in M. PARRINI (ed.), Matelica segreta e scomparsa, Matelica, 2007, 76-78).
Da Matelica il nostro itinerario ci porta a Castelraimondo o ad Esanatoglia, a seconda di quale percorso si voglia fare, per lasciare la valle dell’Esino e raggiungere quella del Potenza. Se si sceglie la Valle dell’Esino si raggiunge Esanatoglia, anch’essa città dalle radici e connotazioni francescane per essere sede di un Eremo, S. Girolamo, di una Chiesa e di un Convento, S. Francesco e S. Apollonia dei Frati Minori Conventuali ed una Chiesa e Convento dei Frati Minori Cappuccini.
Se si risale, invece dalla valle dell’Esino e si raggiunge Castelraimondo, si può percorrere di nuovo la Valle del fiume Potenza e giungere fino a Pioraco, paese incuneato tra profonde gole rocciose, dove è possibile fermarsi nella locale chiesa gotica di S. Francesco (secolo XIV), ricca di opere d’arte, con annesso un grazioso chiostro, oggi sede degli uffici comunali.
Lasciato Pioraco, si salgono i monti in direzione di Sefro e, poi, verso i Piani di Montelago, per una strada secondaria ma pur sempre suggestiva, per visitare l’ultima “roccaforte della povertà” del nostro itinerario: le Grotte del Beato Bernardo, che il primo compagno di S. Francesco scelse come rifugio ed eremitaggio al tempo della persecuzione di frate Elia, come racconta lo spirituale Angelo Clareno.
Oltre che la visita alle Grotte del Beato Bernardo è davvero interessante fare anche visita alla Chiesa di S. Tossano nel Cimitero della Frazione di Agolla, che contiene un ciclo di affreschi con vari soggetti francescani. Sembra addirittura che riportino una delle più antiche rappresentazioni marchigiane del Santo di Assisi, segno che da queste parti la memoria del suo passaggio e della sua fama era rimasta profondamente legata e indelebile. La popolazione era stata segnata dalla presenza del suo primo compagno e aveva per sempre impresso nelle pareti di una chiesa l’effigie di coloro che avevano ritenute degne queste zone del loro peregrinare e del loro pregare.
Girando attorno al Monte Subasio si raggiunge Nocera Umbra. Si prosegue, poi, per il valico del Cornello e si arriva alla Valle di Campodonico, dove si trova, e si trovava anche allora, l’antica Abbazia benedettina di S. Biagio.
Percorrendo tutta la valle, fino a Cancelli, dove si trovava al tempo di Francesco un’altra famosa Abbazia, quella di S. Maria d’Appennino, ora distrutta, si giunge all’imbocco della Valle di Camporege e si risale verso l’interno di essa, o salendo verso i monti Rogedano e Puro, e discendendo verso Valleremita, si trova l’Eremo di S. Maria di Valdisasso, antica torre di Sasso dell’VIII secolo e successivamente, dall’VIII al XII secolo, Monastero di monache benedettine.
C’è in Assisi, la bella città di Francesco, una porta, una delle tante porte della città, rivolta non verso la valle spoletana, ma verso il monte Subasio e che sull’arco interno contiene una lapide, una pietra medievale del 1199, quando il giovane brillante e promettente Giovanni, detto Francesco, aveva soltanto 17 giovanili anni, in cui c’è scritto tra l’altro: “Haec est porta qua itur in Marchiam”, ossia “Questa è la porta per la quale si va nella Marca”. Francesco la varcò più volte. Era il segno, per Assisi, che con la Marca si avevano relazioni, si scambiavano affari, si facevano operazioni di vario genere. Assisi aveva una porta verso le Marche e questa fu aperta proprio nel tempo in cui Francesco cominciava e sentire i primi sussulti di anelito di libertà e di apertura del cuore verso le più belle avventure della sua vita: quelle cavalleresche, dapprima, e quelle della fede, poi.